Rispondiamo subito perché è facile-facile: i maschi in genere torturano e le donne sono quelle che vengono torturate. Quasi mai succede il contrario. Fino a qui è facile, e siamo tutti d’accordo (studiosi e storici “uomini” compresi).
Ma perché gli uomini torturano più delle donne e perché si accaniscono in modo particolare sui genitali femminili? Rispondere a questa domanda è invece un po’ più complicato.
La mutilazione dei seni e degli organi femminili è una pratica presente fino dalle origini della storia dell’uomo e ricompare costantemente nel corso del tempo. Mentre gli organi genitali maschili – pur con qualche eccezione – hanno goduto di una sorta di immunità. Forse perché l’uomo ha sempre guardato con sospetto ai misteri legati al ciclo e alla fecondità, agli organi che definiscono l’essenza della donna? E’ dalla incapacità di capire e penetrare in quei misteri che scaturisce questa violenza? E’ per rabbia nei confronti di esseri più deboli fisicamente ma superiori in termini emozionali ed intellettuali?
Risalendo a ritroso il corso del tempo si arriva a comprendere quanto questo sia un comportamento “primordiale”, pre-esistente all’uomo: l’anima della tortura, così come quella della guerra, è parte integrante della componete maschile. Fino da quando l’uomo viveva nelle capanne o nelle caverne e si avventurava nel territorio circostante in cerca di cibo e di legna per scaldarsi, alla femmina era demandato il compito di allevare i piccoli, di crescerli, di difenderli dai pericoli più immediati, mentre all’uomo era riservato il diritto di caccia, di guerra e di violenza.
L’uomo più forte fisicamente, dotato naturalmente di una struttura muscolare più potente, non solo doveva costringere il nemico o gli altri animali a starsene lontano dal suo territorio ma doveva imporre una sorta di legge e di gerarchia all’interno del clan e dentro il suo nucleo familiare. Chi si trovava a guidare un gruppo, che secondo gli studi più recenti degli antropologi, si attestava sui 45/50 individui, aveva potere assoluto, compresa la condanna a morte.
A chi doveva quindi toccare – ad esempio- il compito di tenere sempre acceso il fuoco? Un bene così prezioso da dover essere costantemente alimentato sia nelle singole abitazioni ma soprattutto nel centro del villaggio prima e della città poi? Logicamente alla donna. Poteva bastare questo? No. Per essere sicuri che fuoco rimanesse sempre acceso bisognava fissare una pena terribile perché costituisse un serio deterrente.
Così il culto del fuoco (anch’esso un elemento primordiale), che era stato tramandato dalle popolazioni arcaiche, agli etruschi e poi ai greci quando arrivò a Roma divenne un rituale complesso e pieno di significati: alla cui base stava sempre l’imposizione alla donna di un ruolo da parte dell’uomo. I romani, che erano entusiasti credenti della divinità del fuoco sacro, gli dedicarono un tempio, e chiamarono Vesta la dea che custodiva questo bene. Le donne che dovevano accudire la fiamma ebbero il nome di Vestali.
Non potevano essere donne qualsiasi. Per custodire il fuoco – e si ritorna sempre lì, nel mistero della sessualità femminile- le donne dovevano essere pure, cioè vergini. In genere di estrazione sociale elevata, vivevano in dei locali annessi al tempio, erano rispettate, temute e invidiate perché potevano avere parte ad alcuni dei riti che si celebravano nel tempio. Però non potevano trasgredire il tabù della verginità.
Quindi non solo sarebbero state punite severamente in caso il fuoco si fosse spento, ma sarebbero state condannate a morte se avessero perso la verginità. Dovevano rimanere pure per trenta anni. E se trasgredivano? Murate vive, in una cella del “campo scellerato”, un luogo fuori dalle mura della città e qui lasciate a morire di fame. Le vestali, anche se avevano contravvenuto al loro stato di vergini, non potevano essere “toccate”, né uccise dalle mani dell’uomo. Questa forma di tortura, detta anche “immuramento”, fu poi utilizzata e ripresa in periodo medioevale e nella caccia alle streghe.
Ma torture ancora più terribili (posto che esista una scala di valori sulla tortura) dovevano affacciarsi nel corso della storia, nel periodo della caccia alle streghe, per confermare ed amplificare quanto la tortura sia un fatto prevalentemente maschile. Durante quel periodo si raggiunse l’apice della repressione sessuale, così le fobie del sesso raggiunsero uno dei picchi più alti, dando vita ad una incontrollabile furia di orrori e di torture.
Ne sono testimonianza gli strumenti che furono materialmente costruiti per straziare e torturare le vittime. Molti dei quali, appartenenti a collezioni private e musei sono in mostra, sono ancora oggi presenti, come insegnamento e monito, all’interno del circuito dei Musei della Tortura.
Non ricostruzioni posticce ma oggetti veri, funzionanti, restaurati perché possano essere una testimonianza perenne di quello che è stato (e che ancora è). Questi strumenti di tortura testimoniano quanto fosse caparbio e insistito il desiderio dell’uomo di ferire e mutilare gli organi sessuali femminili.
In alcuni casi basta citare qualche nome delle macchine da tortura: straziatoio di seni, pera vaginale, ragni della strega, sedia inquisitoria, culla di giuda, zampa di gatto … per provare un brivido. Molte di queste macchine, originali e perfettamente funzionanti, sono in mostra nei Musei della Tortura, con la loro forza e violenza ancora ben visibili sul legno, sul ferro, o sulle borchie.
Tutto questo con lo scopo di educare e non nascondere, accettare e cercare di comprendere anche quelle parti dell’essere umano che maggiormente sfuggono. Per evitare che qualche buontempone pensi che la ‘tortura’ in generale e quella sulle donne in particolare sia solo frutto della fantasia. Meditate gente, meditate … diceva alla fine di uno spot di qualche tempo fa Renzo Arbore, e se serve a capire meglio, magari fatevi un giro in uno di questi musei.