In effetti è un po’ strano, ma non troppo. In questi primi mesi del 2016, prima all’89° PITTI UOMO, poi nelle sfilate milanesi, e prima ancora su quelle newyorkesi e su quelle parigine è stata usata spesso la parola “tortura”. A che proposito? Giornali autorevoli e riveste femminili sostengono che i big della moda, marchi del calibro di Tommy Hilfghter, Burberry e Tom Ford hanno deciso che cambieranno i calendari per far si che il cliente possa comprare subito quello che ha appena visto sfilare in passerella.
Ebbene si! La tortura sarebbe proprio questa: far aspettare così tanto tempo a chi vorrebbe poter comprare direttamente dalla passerella l’abito della griffe!
Alcuni maligni bene informati dicono che in realtà è un escamotage per mettere una toppa alle vendite in calo, un espediente di marketing camuffato per equilibrare un mercato cinese che non è più così tanto affamato di alta moda. E’ poi così strano trovare la parola “tortura” in questo contesto? Mica tanto. Prima di tutto è noto che le vere appassionate della moda amano definirsi e farsi etichettare come “fashion victim” : uomini e donne che vivono la moda come ossessione. E qui il cerchio si chiude perché da un lato abbiamo un ‘torturatore’ dichiarato cioè la griffe e abbiamo una “victim” cioè la donna che insegue la moda, in altre parole un sadico ed una masochista.
Che la moda abbia, nella sua storia, girato spesso attorno a questo concetto non è affatto strano. Già ce lo ricordano vecchi proverbi sul tipo di “chi bello vuole apparire un po’ deve soffrire” associando i canoni della bellezza alla sofferenza fisica. Si perché altrimenti come giustificare il fatto che per infilarsi dentro abiti dal girovita impossibile o in corsetti realizzati in stecche di balena si passassero giornate d’inferno? Roba che la nobiltà e le ricche signore dal sangue blu hanno vissuto nel ‘700, ‘800 e fino ai primi ‘900.
Va però precisato che anche se scherzosamente abbiamo giocato con la parola tortura e con chi l’ha maldestramente usata, questa è una parola da usare invece con una certa cautela e precisione. Primo perché “Tortura” che abbiamo importato dal francese “torture” e che deriva dal latino tortus participio passato di TORQUERE ha invece un significato ben preciso e su cui è bene scherzare poco perché rimanda ai verdi di torcere, volgere, girare.
E’ bene anche ricordare che organizzazioni come Amnesty International da anni si battono perché la pratica della tortura venga abolita nel mondo e che ci sono istituzioni serie come il Museo della Tortura che sono disciplinati e organizzati su basi scientifiche proprio per evitare che si dimentichi quanto è stato fatto in nome e per mano della tortura.
La parola “tortura” è usata nella legislazione internazionale dal secondo dopoguerra appartiene alla convenzione internazionale sui Diritti umani e civili promossa dall’ONU del 1966. In particolare secondo l’articolo 7 “nessuno può essere sottoposto alla tortura né a punizioni o trattamenti crudeli, disumani o degradanti. In particolare, nessuno può essere sottoposto, senza il suo libero consenso ad un esperimento medico o scientifico”.
Che la moda passi, ma la tortura no.