La tortura dell’acqua, come ampiamente dimostrato dalla presenza nei musei di macchine e ingegnosi meccanismi [link], doveva –durante medio evo e Rinascimento- servire a provocare dolori atroci e danni devastanti nelle vittime. Non solo torturare per estorcere confessioni ma anche devastare il corpo della vittima. In quel caso il macchinario che teneva saldamente legata la vittima prevedeva che venissero fatte ingurgitare a forza immense quantità d’acqua che dovevano servire a gonfiare il corpo umano come un pallone. I colpi che venivano inferti ed il movimento stesso del corpo provocava danni irreparabili a gran parte degli organi interni.
L’obiettivo in quel caso era far soffrire fino allo spasimo e ridurre la persona –che anche fosse in grado di sopravvivere– ad una testimonianza perenne di quanto subito.
L’acqua però, pur cambiando la forma di tortura, non è scomparsa come forma di supplizio anzi, diciamo che è tornata prepotentemente in uso in tempi recenti, e –cosa da sottolineare– per caratteristiche opposte a quelle in cui veniva usata in passato.
Infatti, l’acqua, deve la propria efficacia in tempi moderni al fatto che può essere usata senza lasciare tracce visibili sul corpo della vittima. In questo caso non si tratta di far bere ma, altresì, di portare la persona allo stremo della resistenza polmonare tenendolo ripetutamente con la testa sott’acqua. Dentro una vasca, o dentro grandi recipienti d’acqua si immerge la testa della vittima: il terrore da mancanza d’aria, ripetuto più e più volte, serve a condurre la vittima sul bordo della morte per soffocamento senza provocare la morte.
Questa è la versione moderna della tortura dell’acqua, che prende il nome di waterboarding.[link] Purtroppo non è solo in uso fra bande di narcotrafficanti o delinquenti, ma ampiamente usata anche da forze regolari come dimostrato da una serie di documenti, scritti e video.
In particolare è stato oggetto di discussioni feroci il fatto che il waterboarding sia stato usato stabilmente dalle forze di sicurezza USA per combattere il terrorismo di matrice islamica.
Ne è fatta ampia testimonianza in un saggio, un volume dal titolo No Easy Day [link] scritto da Mark Owen che è uno degli uomini del corpo speciale dei Navy Seal che partecipò all’operazione , del 1° maggio 2011 che avrebbe condotto alla cattura e all’uccisione del ricercato numero uno: Osama Bin Laden. [link]
Da quel saggio è stato tratto un film con la regia di Katryn Bigelow [link] dal titolo Zero Dark Thirty: una frase in codice che dice mezzanotte e mezzo di notte come punto di inizio dell’ operazione. Nel film che ha suscitato un vespaio di polemiche si mostra chiaramente l’uso di questo tipo di tortura da parte delle forze americane.
Se non fosse che si tratta di vite umane, e che quindi è naturale provare repulsione e fastidio nell’affrontare questo argomento anche solo da punto di vista mentale, è curioso notare come su questo stesso scenario di guerra le forze oppositrici usassero tutt’altra forma di tortura e di codice di comunicazione.
Stiamo parlando della guerra combattuta in Afghanistan – che è alla base della nascita del terrorismo di Al Qaeda e di Osama Bin Laden – dal 1979 al 1989 dalle truppe sovietiche in appoggio alle forze armate della Repubblica Democratica dell’Afghanistan contro vari raggruppamenti di guerriglieri conosciuti come mujaheddin.[link]
Nello scontro feroce e sanguinoso che durò quasi dieci anni, furono compiuti atti terribili da entrambe le parti. Uno dei momenti più agghiaccianti e più destabilizzanti per i giovani soldati sovietici che finirono in quelle vallate senza una adeguata preparazione e con poca cognizione di causa fu ritrovarsi faccia-a-faccia con forme di tortura di una efferatezza inimmaginabile.
I mujaheddin, quando riuscivano a catturare vivi i soldati sovietici li mutilavano in modo orribile perché potessero essere testimonianza indelebile di quello scontro: gli venivano fissati dei lacci emostatici agli arti e successivamente amputate sia le braccia che le gambe.
Contrariamente alla tortura dell’acqua che non deve lasciare traccia e che può essere messa in dubbio qui si persegue lo scopo opposto: terrorizzare e colpire. Come dice la Bibbia stessa: “manderò il mio terrore davanti a te e metterò in rotta ogni popolo in mezzo al quale entrerai”.
Il corpo umano ormai ridotto ad un troncone parlante deve rimanere in vita, deve poter parlare, deve distruggere la resistenza mentale di giovani soldati minare nel profondo la loro resistenza psichica.
Da questa guerra che è stata per decenni una ferita aperta per l’Unione Sovietica e sulle memorie delle persone che sono state coinvolte e toccate da queste atrocità è stato fatto un libro Ragazzi di Zinco di Svetlana Aleksievic, premio Nobel per la letteratura 2015. [link].
E’ da notare come l’autrice sia stata a sua volta perseguitata dal regime sovietico proprio per il lavoro di denuncia e di recupero della memoria delle atrocità consumate su quello scenario di guerra.